La campagna di raccolta delle olive 2022-2023 forse sarà ricordata come la peggiore della storia. Scarse quantità, qualità non eccellente e la pressione di fattori esterni determinati dal conflitto in Europa hanno comportato un’impennata dei prezzi mai vista, creato tensioni fra i vari attori della filiera olivicola e portato a galla in modo prorompente i problemi che sotto la cenere covavano ormai da anni.
Come si suol dire, i nodi sono venuti al pettine. I rincari pazzeschi per l’energia e, di conseguenza, per i trasporti e i contenitori, colpiscono in modo trasversale tutti i settori della manifattura e dei servizi: ma l’olivicoltura quest’anno ha subito un doppio colpo perché a ciò che toglie il sonno a qualunque imprenditore italiano si è aggiunta una raccolta pessima, dovuta al clima impazzito dello scorso anno quando le piante sono state stressate da gelate tardive e poi da una calura e una siccità che sono iniziate in primavera e non hanno mollato fino a dicembre, quando era già iniziata la raccolta.
Come se non bastasse, in settembre, un nucleo di storiche famiglie dell’olivicoltura italiana ha lasciato Federolio per fondare una nuova associazione di categoria, Unifol (Unione italiana famiglie olearie) frammentando la rappresentanza. Senza entrare nel merito delle ragioni e dei torti, è un fatto che la divisione rende più deboli nel confronto con l’esterno, a partire dal Governo con il quale dovrebbe essere avviato al più presto un dialogo per dare finalmente concretezza ad un piano serio per l’olivicoltura nazionale del quale da anni si parla ma non si è mai visto il primo atto.
Tutti questi nodi venuti al pettine nell’anno orribile 2022 vanno affrontati, rapidamente e con decisione, se non si vuole davvero mettere a rischio un comparto che oltre a generare migliaia di posti di lavoro è anche uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy agroalimentare, cammeo dell’italian food e dell’italian life style sui mercati stranieri. La sfida con la Spagna (e la Tunisia, e il Marocco, e il Portogallo) è ormai probabilmente da dare per persa: questi Paesi hanno investito, da decenni, sul super intensivo e hanno vinto la battaglia della quantità. All’Italia resta la possibilità di giocarsela sul terreno della qualità: me deve darsi una mossa.
I numeri parlano chiaro e mostrano che quest’anno è andata male quasi per tutti: la Spagna ha prodotto 750 mila tonnellate d’olio, meno della metà dell’anno scorso; resterà stabile la Grecia che però contribuisce poco con le sue 250 mila tonnellate; l’Italia che normalmente supera le 300 mila tonnellate chiuderà a meno di 200 mila. Senza investimenti in impianti moderni, quando la siccità morde tutti soffrono, ma chi ha investito meno soffre di più.
La conseguenza immediata di questo stato di cose è l’impennata del costo dell’olio comunitario, passato a 5 euro al chilo. Quello italiano è sugli 8 euro al chilo. Il costo della frangitura è aumentato del 60% (si va da un minimo di 12 euro al quintale nei frantoi industriali ad un massimo di 20 euro al quintale in quelli familiari).
Complessivamente i costi di produzione sono saliti del 120%. Inevitabile che si siano prodotte tensioni nel rapporto fra produttori e retail con la Gdo che, in una prima fase, ha cercato di fare il massimo per non scaricare a scaffale l’intero aumento, tentando così di proteggere i propri clienti e se stessa. Ma adesso, a partire dalle prossime settimane, gli aumenti per i consumatori saranno inevitabili: le stime indicano che il prezzo dell’olio per le famiglie italiane aumenterà tra 2 e 2,5 volte.
Con un impatto potenzialmente molto significativo su un comparto che già da anni soffre un trend di calo dei consumi. Nel frattempo prosegue il dibattito interno alla categoria dei produttori di olive e di oli, una categoria particolarmente variegata, dove figurano insieme famiglie di produttori piccolissimi e colossi multinazionali i cui interessi strategici inevitabilmente divergono. E quindi c’è chi vorrebbe scommettere sulle coltivazioni almeno intensive (per il super intensivo oggettivamente in Italia ci sono pochi spazi) e chi invece preferirebbe una valorizzazione delle piccole produzioni di qualità. C’è chi è favorevole ad un’apertura alle importazioni di olio anche non comunitario e chi invece ritiene che le frontiere debbano rimanere sbarrate. Su un aspetto tutti concordano: serve un piano nazionale, serio, di modernizzazione sia dei campi che degli impianti, da sostenere non soltanto con prebende pubbliche ma anche con generosi investimenti privati. Un fatto è certo: il tempo è scaduto.