Parlando di NON FOOD: alzi la mano chi non compra in Cina. Tutte le aziende, dalle multinazionali ai piccoli produttori, per non parlare dei distributori hanno contatti (spesso aziende in proprietà) e relazioni importanti con la Cina. Il motivo è lapalissiano, è legato al costo della mano d’opera principalmente. Ebbene il Paese dei giochi olimpici sta vivendo un periodo di contraddizioni e tensioni interne spaventose, ma anche di emergenti problemi economici che possono cambiare l’ordine dei fattori che sino ad oggi hanno visto aumentare le relazioni tra aziende italiane ed aziende cinesi.
In Italia, chi compra si sarà accorto che il prezzo dei prodotti è aumentato negli ultimi 8 mesi di percentuali che variano dal 20% al 80%, sino ad oggi pur aumentando i nostri listini di pochissimo (massimo 5%) si è potuto resistere all’urto degli incrementi, ma se gli stessi continuassero a questo ritmo per altri 2 anni cosa succederebbe?
Perché questa situazione?
L’inflazione cinese è stata del 7,1%, e del 7,7% in maggio. Ma resta alta, nonostante il governo tenga fermi i prezzi di alimenti, carburante e altri prodotti essenziali. Inoltre i prezzi per i produttori sono cresciuti dell’8,8% a seguito degli aumenti di materie prime ed energia, record da oltre 10 anni, e si teme che questi maggiori costi saranno poi traslati sui consumatori. La Cina sta attraversando la peggior crisi energetica della sua storia dopo che nel 2007 sono state chiuse una miriade di piccole miniere di carbone che, però, producevano il 38% del fabbisogno per la produzione di elettricità. I costi dell’energia elettrica sono raddoppiati negli ultimi mesi. Di questa situazione ne risentono ovviamente le aziende ed i loro costi, ma anche le famiglie che non vedono i loro salari aumentare in proporzione. Danny Lau, presidente della Associazione delle piccole e medie imprese di Hong Kong, prevede che le ditte di Hong Kong potrebbero chiudere o spostare altrove 20mila delle 70mila fabbriche che hanno nel Guangdong. La produzione di merci per l’esportazione dà lavoro ad almeno 45 milioni di cinesi. Li Xiaochao, portavoce dell’Ufficio statistico nazionale, osserva che comunque i prezzi “sono ancora a un livello troppo alto: se i prezzi resteranno alti a lungo…, sarà colpito il benessere della popolazione, soprattutto quella con basso reddito”. La maggioranza della popolazione spende per mangiare oltre la metà del reddito e il governo teme che eccessivi aumenti inneschino proteste di piazza, che vuole evitare durante le Olimpiadi. Oltre ad alimenti ed energia aumenta il costo delle abitazioni, cresciuto a giugno dell’8,2% nelle 70 maggiori città
Soluzioni: le aziende cinesi già oggi si stanno organizzando, ed iniziano a ridisegnarsi il loro ruolo: ovvero si propongono come mediatori tra le aziende italiane, loro clienti sino ad oggi, ed aziende cinesi situate in zone meno “tese” sotto il profilo dell’insoddisfazione della popolazione. Oppure, come afferma Danny Lau, presidente della Associazione delle piccole e medie imprese di Hong Kong, le stesse aziende cinesi approfondiranno il filone (già iniziato) di terziarizzare la mano d’opera in Vietnam, il vero paese emergente. Ma esiste sempre un costo di transazione. Che fare? Se l’industria italiana non vuole essere fagocitata dall’ondata inflattiva cinese deve organizzarsi adesso e non aspettare che gli eventi siano già tali da dover giocare in difensiva senza applicare le migliori strategie.
Se i cinesi delocalizzano la supply chain aumenta: le riduzioni ottenute sul costo del lavoro delocalizzato in Vietnam vengono erose dall’inserimento di un intermediario, il cinese stesso, che ha costi e voglioa di guadagnare, senza dare reale valore aggiunto (non mi dite che serve un altro attore alla recita..)
Se il trend è confermato e diventa mainstream, allora vincerà chi va diretto alla fonte (produttori vietnamiti).
I ns. piccoli imprenditori-importatori potranno ovviare con la velocità alla ridotta massa critica di cui disponogno?
SE lo faranno, forse da questa novità di mercato potremmo trarre vantaggi competitivi, Forse, ma molto forse.
Se la decalizzazione sarà fatto con impianti di proprietà cinese sarà difficile accedere direttamente alle fonti di produzione.
Oltre al Vietnam la delocalizzazione inizia anche in altri paesi low cost, come la Cambogia.
Questo, oltre che per abbassare i costi e aggirare i dazi e gli anti-dumping, serve per estendere l’influenza politica della Cina su questi paesi