Dopo l’articolo di Repubblica.it, il colosso tedesco della grande distribuzione decide di ripristinare l’indicazione della fabbrica di produzione dei prodotti italiani di cui è committente. Anche Unilever si impegna a mantenere questa informazione per i gelati Algida fatti a Caivano. Ma in Commissione europea non hanno le idee chiare
ROMA – La battaglia per il mantenimento nelle etichette alimentari dell’indicazione dello stabilimento di produzione, obbligo abolito dall’entrata in vigore del Regolamento Ue 1169/2011, segna un’altra piccola vittoria: la grande catena tedesca di discount Lidl torna sui suoi passi e, dopo le sollecitazioni di Repubblica.it, si impegna ufficialmente a ripristinare la preziosa informazione nei prodotti italiani. Anche la Unilever, la multinazionale anglo-olandese che ha rilevato l’Algida nel 1974 e che sarà partner di Expo 2015, ha garantito che i gelati mandati a Milano per l’evento fieristico saranno fatti in Italia e usciranno dallo stabilimento di Caivano, regolarmente indicato in etichetta.
Lidl ci ripensa. Per capire come ci si è arrivati, facciamo un passo indietro. In un precedente articolo su questo stesso tema, Repubblica.it aveva sollecitato alcune catene della grande distribuzione – che non avevano ancora sottoscritto la petizione promossa dal sito ioleggoletichetta.it sul mantenimento dello stabilimento in etichetta – a esprimere la loro posizione sull’argomento. Esselunga e Carrefour avevano risposto subito, impegnandosi pubblicamente a mantenere l’indicazione nelle etichette dei prodotti italiani. Avevamo fatto la stessa domanda anche a Lidl, che però non ci aveva risposto. Dopo la pubblicazione dell’articolo e un po’ di insistenza da parte nostra, finalmente la catena tedesca si è fatta viva. Un fatto tanto più importante perché sfata il mito della segretezza delle informazioni che, in passato, ha contraddistinto questa sorta di “multinazionale” della distribuzione. Ecco, dunque, l’impegno di Lidl a ripristinare l’indicazione dello stabilimento già tolta da alcuni prodotti di cui la stessa catena è committente: “Come giustamente da lei segnalato – ci scrive Lidl Italia – la normativa sull’etichettatura dei prodotti alimentari è unicamente di fonte comunitaria e il Regolamento n. 1169/2011, in applicazione dal 13 dicembre u.s, non fa alcun riferimento all’indicazione della sede dello stabilimento. La nostra Azienda si è quindi allineata alle nuove disposizioni, commercializzando prodotti alimentari con etichette conformi alla normativa europea. Abbiamo però seguito attentamente il dibattito che si è via via sviluppato dopo l’entrata in applicazione del Regolamento e soprattutto non possiamo ignorare le richieste del Pubblico Italiano. Siamo pertanto lieti di comunicarLe che le referenze a marchio Lidl prodotte in Italia, torneranno ad avere l’indicazione della Sede dello Stabilimento in etichetta”.
“Un fatto molto positivo – ha commentato Raffaele Brogna di ioleggoletichetta.it, che per primo aveva denunciato il caso di alcune etichette già “censurate” da Lidl – ora vigileremo sulle etichette per verificare che gli impegni annunciati si traducano in realtà. E invitiamo nuovamente Lidl, Carrefour e Esselunga a firmare la nostra petizione, superando eventuali divisioni ‘politiche’. Se diamo un ‘colore’ anche alle battaglie traversali che riguardano la collettività, è la fine”.
L’impegno di Unilever-Algida. Non solo. Come già accennato, anche la Unilever, proprietaria da molto tempo dello storico marchio di gelati Algida, nato più di 70 anni fa, ha confermato che non ha intenzione di togliere dai gelati fatti in Italia l’indicazione dello stabilimento di produzione, ossia la fabbrica di Caivano, in provincia di Napoli (indicata sull’incarto di ogni gelato con la cifra 008 che potete trovare alla fine del numero del lotto di produzione). Ecco quanto ci spiega l’azienda: “Unilever ad oggi in Italia riporta in confezione lo stabilimento di produzione dei prodotti e non abbiamo in piano nell’immediato di eliminare questa indicazione, così come su molti altri argomenti restiamo attenti al dibattito per capire cosa realmente interessa al nostro consumatore. Per noi la priorità rimane quella di fornire ai nostri consumatori le informazioni più puntuali necessarie a compiere una scelta d’acquisto informata e responsabile”.
La partnership di Algida con Expo 2015. Unilever-Algida sarà anche partner di Expo 2015. Avremo la certezza che i gelati portati a Milano saranno italiani? “Sì – ci rispondono ancora dall’azienda – perché Unilever ha tutta l’intenzione non solo di continuare a investire in Italia, nonostante il calo dei consumi del gelato che ha reso necessaria la cassa integrazione nei mesi scorsi, ma anche di fare da “testimonial” del cibo sostenibile. La scala di Unilever ha fatto sì che un marchio italiano diventasse famoso in tutto il mondo e che all’esperienza italiana si aggiungessero anche gli investimenti mondiali che il gruppo fa in campo di sostenibilità per approvvigionarsi di materie prime sostenibili e per creare prodotti equilibrati dal punto di vista nutrizionale. Tutto questo ha contribuito alla crescita della marca in Italia e ci consente oggi di partecipare come protagonisti in Expo 2015 in tema di sviluppo sostenibile in Italia. A dimostrazione di questo – conclude Unilever Italia – negli ultimi 4 anni Unilever ha investito circa 50 milioni di Euro nello stabilimento di Caivano, che esiste dal 1975. Il 63,4% della produzione della fabbrica è destinata al consumo nazionale mentre il restante 36.6% è destinato all’esportazione. Proprio a Caivano, inoltre, c’è un Centro di ricerca e sviluppo sul gelato a livello mondiale. Due anni fa è stato lanciato anche il Green Express, ossia il trasporto sostenibile dei gelati su rotaia in speciali vagoni frigo che partono dallo scalo merci di Maddaloni-Marcianise grazie a un accordo con Trenitalia Cargo e Gruppo Catone”.
Flai-Cgil: riaprire la trattativa. La questione Unilever-Algida è tanto più delicata perché va inquadrata in una cornice più ampia, ossia quella della profonda crisi che ha investito il comparto del gelato confezionato a vantaggio del prodotto artigianale, come ci spiega Marco Bermani, segretario nazionaleFlai-Cgil: “A fronte di una corposa diminuzione dei volumi dello stabilimento di Caivano, è stato imposto un blocco della produzione nei mesi di novembre e dicembre. Gli operai, circa 900 di cui la metà con contratti a tempo determinato, sono stati lasciati a casa in cassa integrazione a zero ore. A gennaio lo stabilimento ha riaperto i battenti e presto riprenderemo la trattativa con Unilever per riorganizzare l’attività per il 2015-2016. Certo – conclude il sindacalista – la situazione non è affatto rosea. Negli ultimi 5 anni gli operai “stagionali” sono stati dimezzati (oggi sono poco più di 200, ndr.) e 150 lavoratori hanno perso il posto. La presenza di Algida a Expo 2015 sarà un argomento presente al tavolo della trattativa, perché potrebbe dare la spinta necessaria a rilanciare i prodotti tradizionali, quei gelati classici come il Cornetto o il Cremino che devono continuare a essere fatti in Italia e non devono perdere il sapore originario, cedendo alla globalizzazione del gusto”.
Caos in Europa: il tema dello stabilimento confuso con la certificazione d’origine. Se, dunque, le grandi catene di distribuzione e alcune multinazionali presenti in Italia cominciano a mostrare qualche apertura nei confronti delle richieste dei consumatori italiani, non si può dire lo stesso della Commissione europea, che sembra parecchio confusa sul tema. Come ha evidenziato ilFattoalimentare.it qualche giorno fa, la risposta del commissario lituano per la salute e la sicurezza alimentare Vytenis Andriukaitis all’interrogazione scrittadell’eurodeputata di Forza Italia Elisabetta Gardini, è stata quantomeno equivoca, dimostrando di confondere il tema dello stabilimento di produzione con quello – altrettanto importante ma già regolamentato – della certificazione d’origine dei prodotti finiti (ossia il Paese di provenienza). “Andriukaitis ha fatto una discreta confusione tra le informazioni obbligatorie ulteriori che gli Stati membri possono pretendere in etichetta– spiega Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare e fondatore di Great Italian Food Trade – come appunto la sede dello stabilimento di produzione (ai sensi dell’articolo 39.1del regolamento Ue 1169/11), e le misure in tema di origine dei prodotti (ai sensi del successivo comma 2 del citato articolo). E alla fine ha asserito che la Commissione ‘non considera l’informazione sull’origine o la provenienza come uno strumento utile né a prevenire le frodi, né a proteggere la salute pubblica’. Una risposta – conclude Dongo – che sembra quasi tele-guidata dai portatori di interessi contrari a quelli sostenuti dalle decine di migliaia di cittadini che hanno aderito alle petizioni di ioleggoletichetta e di Great Italian Food Trade e Fatto Alimentare. Considerato anche che la determinazione espressa dal ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina non attiene a una generica indicazione d’origine, bensì alla precisa identificazione dello stabilimento dove il cibo è stato prodotto”.
Alla fine il commissario non si è potuto sottrarre dal riconoscere che il regolamento UE 1169/11 prescrive (all’articolo 26.2.a) il dovere di indicare il paese di origine o il luogo di provenienza dell’alimento ogni qual volta la sua omissione possa indurre in errore il consumatore sulla sua effettiva origine, tenendo conto anche delle notizie che accompagnano il prodotto e la sua etichetta, tra le quali appunto il marchio commerciale oggetto dell’interrogazione di Gardini.
La palla passa adesso al governo italiano che, se deciderà di portare avanti gli interessi delle industrie e imprese che contribuiscono all’occupazione e al Pil del nostro Paese, potrà notificare alla Commissione europea la disposizione nazionale che dal 1992 ha previsto l’obbligo di indicare in etichetta la sede e l’indirizzo di produzione. Poiché è proprio tale informazione a venire giustificata da esigenze di tutela della salute pubblica (per la miglior gestione dei rischi di sicurezza alimentare) e di prevenzione delle frodi, al fine di distinguere il vero ‘Made in Italy’ dal falso ‘Italian sounding’, ossia il mercato del cibo italiano taroccato all’estero, che ci fa perdere ogni anno 60 miliardi di euro.
Fonte: Repubblica Economia&Finanza