Perché la Germania, che ha una economia interna stagnante, nell’export riesce ad essere così efficace da produrre attivo e nuovi posti di lavoro? Sarà che gli straordinari prodotti tedeschi, perfetti ed indistruttibili valgono davvero più di quelli degli italiani? Senza venire smentiti dagli stessi tedeschi possiamo serenamente dire che questo ragionamento non vale per il food made in Italy. Eppure i nostri amici teutonici anche in questo comparto ci fanno le scarpe. Cosa succede? Quali sono le ragioni? Qual è il loro reale valore aggiunto? Il governo di Berlino? Le Camere di commercio dei Lander? La qualità dei prodotti delle sue industrie?
Si può serenamente dire un mix di tutto questo, più un ingrediente segreto: la chiave del successo della Germania starebbe nel fatto che i tedeschi sanno vendere meglio di noi italiani.
Detta così pare un’eresia. E invece i numeri lo dimostrano. Li fornisce l’ufficio studi Studia Bo, che li ha elaborati per conto di Unicredit sulla base della banca dati Ulisse, che consente di dividere i flussi del commercio estero per fasce di prezzo. Un dato campeggia su tutti: sul totale del commercio mondiale di beni di qualità più elevata le esportazioni tedesche rappresentano il 14% e sono in crescita, quelle italiane solo il 4% e per giunta mostrano un andamento piatto.
Se poi andiamo a vedere i singoli settori, nei beni di fascia medio-alta l’Italia batte la Germania solo nella moda. In tutto il resto, la spuntano i tedeschi. Anche nell’alimentare. Siamo il Paese che cerca di accreditarsi nel mondo come patria della buona cucina, eppure registriamo quote di commercio nel segmento di fascia alta tutto sommato modeste: 7% per l’Italia, meno della Germania, per non parlare della Francia all’11 per cento. Perché le aziende tedesche sono più brave a vendere? “Intanto perché sono più grandi, e quindi sono in grado di supportare costi di innovazione e di marketing nettamente superiori a quelli di cui sono capaci le nostre imprese”, spiega Carlo Marini, responsabile Internazionalizzazione del Gruppo Unicredit. La potenza di fuoco delle imprese tedesche è visibile in molti campi. Per esempio, negli investimenti in ricerca e sviluppo: stando ai dati di Eurostat per il 2013, la spesa procapite in R&S effettuata dalle imprese di Berlino è di 682 euro contro i 183 delle imprese italiane.
Al di là del fattore dimensionale, poi, il potenziale di marketing della Germania è reso superiore dalla capacità degli operatori del commercio tedeschi – vale a dire della grande distribuzione, dei grossisti, delle trading company – di spingere le imprese sui mercati esteri. Non è un caso, per esempio, che negli altri Paesi europei (dati Ice) le aziende del commercio contribuiscono in media per il 19% alle esportazioni, mentre in Italia questa percentuale scende al 13 per cento.
Come possono fare, allora, le nostre imprese per imparare la lezione tedesca e recuperare terreno competitivo? «Intanto potrebbero adottare un approccio meno intuitivo e più strategico all’export – spiega Marini -. Per esempio, potrebbero dotarsi al proprio interno di figure specializzate nell’internazionalizzazione, come gli export manager o gli esperti di marketing internazionale». Altra curiosità è che, secondo una indagine effettuata, le imprese tedesche hanno risposto che per andare all’estero preferiscono appoggiarsi ai loro consulenti e alle Camere di commercio locali mentre le banche devono limitarsi a fare le banche. Mentre quelle italiane alle istituzioni bancarie hanno chiesto un appoggio a 360 gradi».