Enrico Luciano è CEO di Olio Dante, storico brand dell’olio italiano. Fondata alla metà dell’Ottocento da Andrea Costa, l’azienda ha fatto parte della multinazionale Unilever dagli anni Ottanta fino ai primi Duemila per poi passare al gruppo spagnolo SOS-Cuetara nel 2008 e tornare nel 2009 di proprietà italiana, a valle dell’acquisizione da parte degli Oleifici Mataluni di Montesarchio (Benevento), dove oggi è stabilita l’azienda.
Olio Dante SpA ha successivamente acquisito altri brand storici tra cui Topazio, OiO, Lupi e Olita. Nel 2017 la management company Oxy Capital è subentrata nel controllo – mentre restano presenti come azionisti la famiglia Mataluni ed Ismea, agenzia del Ministero dell’Agricoltura – ed è stata apportata nuova finanza per la realizzazione di un piano industriale, incentrato sull’efficienza operativa e sull’internazionalizzazione. Olio Dante ha un impianto di produzione esteso su una superficie di 50.000 metri quadrati, con un frantoio (250.000 kg di olive / giorno), 2 raffinerie (olive e semi, 250.000 kg / giorno), 20 linee di imbottigliamento (fino ad un massimo di 1.000.000 litri / giorno) e un laboratorio di controllo qualità di alto livello. Si colloca tra i principali produttori di oli alimentari nello scenario internazionale con le più importanti etichette storiche italiane, producendo anche in private label per selezionate aziende della GDO italiana ed estera.
Dottor Luciano, cosa può dirci sull’andamento della campagna 2022-23?
“E’ stato un anno molto particolare perché si sono sommate tante dinamiche tutte straordinarie e tutte infauste per il settore: la prima dinamica è la guerra che ha avuto un impatto molto forte sul comparto degli oli di semi, perché il blocco delle navi di olio di girasole ha fatto passare il costo all’ingrosso da 1,5 euro al litro – già superiore alla base storica degli ultimi 5 anni, che era pari a 90 centesimi al litro – a 4 euro tra marzo e maggio del 2022. Un cataclisma totale. In pochi avevano l’olio e chi lo aveva lo faceva pagare caro. Il mercato è stato stravolto per alcuni mesi. Adesso la situazione si sta normalizzando e l’olio è ritornato anche sotto i livelli pre-guerra. Va tenuto conto del fatto che l’olio di girasole rappresenta i 2/3 del volume totale dell’olio di semi. Contemporaneamente il costo dell’olio d’oliva ha raggiunto il massimo storico: due anni fa lo compravamo dalla Spagna a 2,2 euro al chilo mentre quest’anno ha toccato i 5,50 euro al chilo. Non bastasse, a causa della crescita dei costi dell’energia, il costo delle bottiglie di vetro in 24 mesi è quasi raddoppiato nei momenti di picco dell’energia a metà anno. Per questo, alcune aziende stanno lanciando le bottiglie in Pet anche per l’olio d’oliva, così da andare incontro alle esigenze della Gdo e dei suoi clienti”.
Questa impennata inflazionistica è stata scaricata sui consumatori?
“Non del tutto. La Gdo ha usato i magazzini come ammortizzatore e lo stesso hanno fatto gli imbottigliatori, che come noi hanno fatto da calmiere. Ma nei primi 6 mesi del 2023, finiti gli oli vecchi, si scaricherà tutto sui consumatori e assisteremo a due fenomeni: riduzione delle promozioni in Gdo sull’olio e spostamento delle promo su altre categorie di prodotti. Due anni fa noi cedevamo l’olio alla Gdo a un prezzo compreso fra 2,60 e 2,80 euro al litro e la Gdo lo metteva in promo a 3 euro; ora siamo costretti a cedere intorno a 6 euro al litro alla GDO, che è in difficoltà a sostenere promo da 6-8 euro al litro. Questo potrà rendere piuttosto perniciosa la situazione per il consumatore, per il quale mi aspetto un aumento di prezzo paragonabile a quello visto all’origine, cioè tra 2,2 e 2,4 volte. In Italia il consumo medio pro capite di olio è 10 litri l’anno: l’aumento in totale inciderà almeno 30-40 euro in più l’anno, un numero che non fa piacere ma non impatta tantissimo sul budget delle famiglie. Tuttavia, la situazione non è mai stata così difficile negli ultimi 5 anni”.
Può arrivare sollievo dall’impiego di olio non comunitario?
“L’olio tunisino, del quale a volte tanto male si parla, può essere preso in considerazione se è di qualità, ma già da 5-6 anni quasi tutti i brand hanno l’olio tunisino all’interno di alcuni specifici blend che ammettono olio di origine non comunitaria, in modo del tutto legale per la legge comunitaria. Quindi non avremo grandi sollievi. E’ vero che la produzione tunisina quest’anno non ha avuto un collasso del 50% come quella spagnola, ma l’apporto non risolve il problema: la Tunisia produce 2-300mila tonnellate di oliva ma ne mancano almeno 500mila in Spagna. L’unico Paese che ha fatto il record storico di produzione, passando quest’anno a 400mila tonnellate da 200-300 mila, è la Turchia: questo un po’ mitiga la situazione ma l’Ue non ha accordi in materia di contingenti in esenzione dazi con questo Paese, come invece li ha con la Tunisia. Per tale motivo, al momento la Turchia non risolve. Ogni cosa si faccia in modo intelligente per favorire le relazioni commerciali con la Turchia è da vedere con favore perché va nell’interesse della distribuzione organizzata e dei consumatori. Avere clausole di mutuo accesso ai mercati con dazi inferiori o con contingenti in esenzione, come con la Tunisia, sarebbe desiderabile negli anni con carenza di prodotto”.
Oltre a lavorare sul tema dei dazi, cosa dovrebbe fare l’Italia?
“Quello che veramente risolverebbe e su cui si dovrebbe lavorare è aumentare la produzione di olio italiano: non ci deve far paura l’aumento della produzione spagnola perché se è vero che la produzione eccessiva può creare problemi, è altrettanto vero che poi ci sono anni come questo in cui manca l’olio. E’ un fenomeno drammatico: 40 anni fa Italia e Spagna avevano produzioni comparabili, quest’anno la Spagna produrrà comunque 2-3 volte l’Italia e in anni buoni arriva a produrre anche 5-6 volte rispetto all’Italia. Questa è una situazione da risolvere, si deve investire e non può essere sempre e solo lo Stato ad investire, deve farlo l’imprenditoria privata privilegiando la produzione per la fascia premium, perché il prodotto italiano ha una qualità ed una valorizzazione maggiore sui mercati. Servono coltivazioni intensive e superintensive, di cultivar italiane, oltre alle coltivazioni tradizionali; servono produzioni moderne che portino a costi unitari competitivi rispetto agli altri Paesi. Per avere una speranza dobbiamo espandere la nostra visuale, non focalizzandoci solo su imbottigliamento e marketing ma sulla produzione della materia prima: e, ripeto, lo Stato può agevolare ma servono capitali privati e voglia di fare impresa”.
I mercati esteri riusciranno a compensare la crisi del mercato interno?
“Negli Usa la formazione del prezzo avviene in modo diverso dall’Italia dove ogni due mesi si ridiscute con la Gdo: negli Usa si determina il prezzo una o due volte l’anno e storicamente la Gdo ha più margini per assorbire gli aumenti e toccare meno i prezzi a scaffale. Quindi sul mercato degli Stati Uniti mi aspetto un contraccolpo meno forte. Certo attualmente negli Usa il consumo di olio cresce, mentre da noi non cresce più: lo sfogo degli aumenti negli Usa potrebbe comportare il rischio di rallentare questa crescita dei consumi, così come in Asia, dove per gli imbottigliatori come noi ci sono margini di manovra maggiori rispetto al mercato domestico”.