La Grande Distribuzione Organizzata è un insieme delle aziende che acquistano prodotti dall’industria e li rivendono ai consumatori finali. Il momento iniziale delle attività della GDO è naturalmente quello dell’acquisto dei prodotti.
Chi vende e chi compra sono due manager che rappresentano aziende con poteri di negoziazione differenti, sempre.
Un supermercato senza la pasta Barilla, senza la Nutella, senza il dentifricio AZ, senza alcune marche di proprietà di multinazionali non è appetibile al consumatore. Ciò significa che il potere negoziale dell’industria è tale da condizionare fortemente l’atteggiamento di chi compra.
Chi ha più necessità è in questo caso chi compra.
Con una ventina di aziende (multinazionali) si sviluppa il 30% del fatturato della GDO.
Poi esiste una vasta fascia intermedia di aziende che non sono leader, ma sono importanti marchi da tenere a scaffale. Tornando agli esempi precedenti non si vedrà mai un supermercato senza la Barilla, ma senza la De Cecco quasi mai. Sono un centinaio le aziende che, pur non essendo leader, hanno comunque un ruolo molto importante nella costruzione della categoria di appartenenza.
Infine esiste una terza fascia di aziende che, non essendo fondamentali per la GDO, faticano a trovare il posto negli scaffali. Queste sono qualche migliaio e vivono la negoziazione con un rapporto di inferiorità che li condiziona nella trattativa.
Questo ed altri articoli che verranno scritti su GDOnews sono rivolti a questo stereotipo di aziende, che sono la maggior parte e che formano, di fatto, la spina dorsale della produzione nazionale oppure, in caso del no food, della distribuzione.
In queste righe iniziali si esamineranno gli aspetti psicologici della negoziazione.
In generale ci possono essere, tra le altre, tre principali cause per le quali un negoziatore (buyer vs multinazionale oppure PMI vs buyer) non raggiunge con efficacia i propri obiettivi e soprattutto la vera soddisfazione dei propri bisogni, generandone al pari negli altri.
In primis la paura: chi negozia spesso si predispone a cercare di ottenere meno di ciò che potrebbero raggiungere. Per esempio, nelle trattative spesso capita che uno degli attori della trattativa pensi che è meglio non fare profitto e tenersi il cliente. Ma va sottolineato che le aziende senza profitti non possono sopravvivere: sarebbe buona norma lasciare alla concorrenza i clienti che non pagano, oppure anche quelli che minacciano e che fanno promesse di aumenti di quantità non garantite da reali impegni. Il primo accorgimento attuare è quello di cercare (ed incontrare) i partner leali, dove la fiducia sia conquistata reciprocamente con i fatti. Infatti è bene avere chiaro che alla paura si può contrapporre la propositività, fondata su una sana attività di scambio.
Il secondo errore più frequente è l’erronea valutazione del potere negoziale e del quadro informativo di cui si dispone. Consiste nel sottostimare o sovrastimare erroneamente le proprie forze e le proprie debolezze e al pari quelle degli interlocutori. E’ abitudine del buyer dare una valutazione errata del potere negoziale dell’azienda: i criteri di valutazione sono spesso quelli della conoscenza diretta (posizionamento sugli scaffali di concorrenti), della pubblicità che fanno determinate aziende (che sollecita la conoscenza e la notorietà), della storicità che ha una determinata azienda. In verità, però, il buyer riceve il fornitore per avere una idea del mercato che sta fuori dal proprio assortimento, ma il ricevere non sempre è sinonimo di attenzione. E’ la capacità di chi vende che deve fare la differenza. Spesso e volentieri anche l’industria, però, compie errate valutazioni del potere negoziale perché il manager medio di una PMI che si presenta in GDO per vendere un proprio prodotto vive del miraggio della notorietà dell’insegna. Un buyer che si accompagna dalla notorietà dell’insegna agli occhi di una piccola azienda può fare molti danni all’industria. Saper negoziare significa dare la giusta valutazione dell’interlocutore.
Di frequente le persone, che hanno una visione parziale del tutto in cui sono inserite la loro attività lavorativa e la loro organizzazione, assumono alternativamente comportamenti aggressivi e remissivi, riducendo la dinamica della trattativa a una danza tra l’imporsi, l’inutile cedere e il compromesso.
L’ultima, ma più importante, è la mancanza di un metodo, che si traduce in improvvisazione. Se chiedete anche a un negoziatore esperto che cosa fa per raggiungere i suoi successi, di spiegarlo e condividerlo con altri, avrete scarso riscontro se a guidare sono solo talento, istinto e esperienza e non un approccio strutturato.
Le conseguenze di una mancanza di “frame work negoziale” sono molteplici. La prima, e più evidente, è la perdita di know-how. La replicabilità e trasmissibilità del proprio comportamento virtuoso agli altri consente di evitare errori che, tradotti nella vita di una azienda, significano “perdite”. C’è una grande differenza tra qualcuno che sa fare qualcosa e qualcuno che sa anche spiegare agli altri come raggiungere il medesimo risultato di soddisfazione.
La seconda conseguenza è la perdita di tempo: se non ho metodo, tutte le volte dovrò reinventarmi la ricetta, senza garanzia di successo. Se invece ho una base, che comunque mi garantisce un risultato sicuro, la posso “arricchire” con gli ingredienti del talento, dell’esperienza e dell’istinto.
L’ultima conseguenza è la mancanza di consapevolezza: solo chi ha metodo ne dispone e si regala la possibilità di crescere grazie al costante miglioramento.
Superare la paura, valutare con attenzione il potere negoziale e dotarsi di un metodo sono tre delle chiavi per gestire con successo una negoziazione. A tutto ciò sottende un set di capacità molto vario e complesso, a cui la pratica, l’istinto e il talento non sono una sufficiente risposta.