La guerra negoziale tra grande distribuzione e industria sta arrivando a livelli di tensione che molti professionisti del settore non ricordano a memoria d’uomo. Mai come oggi i contratti di fornitura, le relazioni commerciali nel loro senso più ampio, ed anche quelle personali, in termini professionali tra manager del retail e dell’industria, non sono mai state tese come lo sono oggi.
È come se i percorsi professionali tra retailer e fornitore, dopo anni di collaborazione, si fossero ridotti a zero: l’unica garanzia di poter dare seguito al rapporto è l’accordo sui prezzi di listino per il 2022.
Ci si domanda: perché si è arrivati a questo punto?
La causa scatenante è sicuramente l’esplosione dell’inflazione: in particolare quella determinata dalla crisi energetica e dei suoi derivati, ma unitamente ad essa non è di minor entità il concomitante incremento indiscriminato del costo dei noli di trasporto marittimo, le pestilenze degli animali e, non ultime, le crisi delle coltivazioni che hanno coinvolto un numero di paesi e di ambiti di produzione rilevanti, generando un’autentica “tempesta perfetta”.
Questa la causa scatenante della crisi nelle negoziazioni tra industria e retail ma allora ci si domanda: se le cause scatenanti sono da attribuirsi a fenomeni esterni e condivisi, perché il confronto tra retail ed industria è arrivata a questo punto?
Semplice: per la mai scomparsa diffidenza tra le parti e per errori reciproci congeniti nei rispettivi modus operandi.
Iniziamo dal fornitore: fatte salve le aziende più rilevanti e strutturate, poche nella numerica totale, il resto dell’industria di produzione (PMI) considera strategica la strategia della “lagna”: siamo italiani, un tempo brava gente, compassionevoli per cultura e storia, ed il pianto ha sempre un certo effetto ed è bene sfoderarlo in situazioni di difficoltà come questa. Alla lagna del fornitore fa da contraltare la naturale diffidenza di chi (category manager) deve valutare quali lacrime siano vere e quali del coccodrillo.
Filippo Marchi, direttore generale di Granarolo, qualche giorno fa in un’intervista al Sole24 Ore spiegava che gestire l’aumento dei prezzi indiscriminato attraverso le ottimizzazioni dei processi di produzione interni non è più possibile, una parte degli aumenti deve essere scaricata a valle, e quindi sui prezzi al pubblico. Ha poi aggiunto che oramai, in Granarolo, i costi sono uguali al margine EBITDA, ovvero profitti in negativo. L’intervista a Marchi è interessante perché la sua spiegazione potrebbe essere presa ad esempio di come un fornitore si dovrebbe rivolgere alla grande distribuzione; ha aggiunto, infatti, che Granarolo, nel budget 2022, aveva ipotizzato un’inflazione derivante da gas ed elettricità pari al 60% del costo complessivo, ma questo budget è già stato superato. Un anno e mezzo fa Granarolo era coperta da un contratto a prezzo fisso che prevedeva il 50% dei loro consumi, e l’energia la pagavano 24€/MWh. Le offerte per il mese che viene non vanno sotto i 70-75€/MWh, ed a Natale si arrivò a livelli record di 160€ MWh.
Queste sono spiegazioni e non lagne: si ammette che è necessario ottimizzare ma non è sufficiente, si spiega il costo dell’energia, che nel settore in cui opera l’azienda è una delle voci più importanti, ed infine si relaziona come si è inteso agire nelle soluzioni.
E poi dovere del retailer fare le sue valutazioni, le quali non possono basarsi prevalentemente sui confronti dei listini di tutti i concorrenti della controparte presenti sulla sua scrivania. I mercati vanno conosciuti in termini economico-finanziari, non solo in termini di dinamiche di vendita al pubblico e, in rari casi, di approssimativa esperienza di produzione.
Qual è l’incidenza media del costo energetico nel settore lattiero-caseario? Qual è l’EBIT medio del settore? Quali sono gli ambiti di ottimizzazione? Quali sono i processi di produzione e l’incidenza esatta della materia prima, dei materiali e del suo costo logistico?
Queste sono le domande a cui un manager del settore retail, se vuole affrontare seriamente il tema, deve saper rispondere.
È poi chiaro che le valutazioni con il fornitore si devono coniugare a quelle del suo mercato: se la sua concorrenza aumenta i prezzi in misura inferiore a quella a cui lui potrebbe essere indotto a fare, è naturale che deve saper essere ancor più abile e negoziare un prezzo pari alla concorrenza o migliore.
Ma non è possibile liquidare il problema dei listini con un numero freddo nato dal caso o dalle esigenze di concorrenza orizzontale.
Non è con la lagna (del fornitore) e con il pregiudizio (del buyer) che si costruiscono i contratti.