L a parola d’ordine è “non fare la fine del mattone”, fondendo stavolta i gioielli di famiglia prima che sia troppo tardi. Perché per decidere di unire in matrimonio, dopo anni di corteggiamenti a vuoto, tre (dei nove) giganti della grande distribuzione a marchio Coop – Adriatica, Estense e Nordest – è servito non poco coraggio. Mandare in soffitta rivalità e gelosie tra “campanili” non è infatti agevole per chi, come i cooperatori, ha sempre fatto del legame con le terre natie la propria ragion d’essere. Ma a questo giro le resistenze sono cadute: entro l’anno nascerà così la più grande Coop italiana, con un fatturato da oltre 4,3 miliardi e 334 supermercati sparsi lungo la dorsale adriatica.
Nel mirino c’è il mercato domestico, con l’obiettivo di rilanciare il marchio nelle regioni meridionali, dove i punti vendita Coop sono spariti o godono di scarsa salute sul fronte vendite. L’operazione cade in uno dei momenti più delicati nella storia delle coop “rosse”. Fiaccate, a livello d’immagine, dagli scandali che hanno travolto nomi storici del movimento Legacoop (dagli appalti per l’Expo al caso Cpl Concordia). E poi la crisi infinita, che ha spazzato via intere filiere – come l’edilizia – dove si è capito troppo tardi che le fusioni avrebbero potuto salvare i costruttori coop dal crollo.
E quando ci si è arrivati, non c’era quasi più nulla da accorpare, perché commesse e appalti pubblici erano nel frattempo svaniti. Sul fronte dei supermercati, invece, le coop viaggiano a testa alta. È un settore in cui hanno mostrato di avere spalle larghe per affrontare anni di fuga delle famiglie dagli scaffali. Nel 2014 oltre il 30% delle vendite
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