Sono in ufficio, fine settimana, ultime battute e ultimi colloqui di lavoro prima di dedicarmi al weekend famigliare. Arriva un giovane 25 enne, neo laureato in Ingegneria Gestionale; mi racconta la sua storia scolastica, le sue brevi esperienze di stage in azienda (aiuto!!) e mi dice “…. ho capito che il lavoro ci sarebbe, ma faccio fatica a capire cosa mi offrono realmente le aziende! Leggo profili altisonanti e alla fine sono prestazioni operative di base, vedo titoloni roboanti ma poi il ruolo è più semplice del previsto.” A quel punto, vediamo insieme il profilo, capisco la questione, provo a spiegarglielo e mi rendo conto che in lui – come in altre centinaia di ragazzi – c’è lo smarrimento verso un mondo del lavoro che non conoscono o lo hanno sentito raccontato da altri conoscenti, famigliari, amici (magari con esperienze negative).
In queste righe ho già avuto modo di dirvi quanto la nostra scuola sia lontana dal mondo del lavoro e viceversa. Sforniamo competenze valide, interessanti, ma “lontane” dalle esigenze professionali, poco abituati al sacrificio. Nello stesso tempo il mondo del lavoro non si preoccupa di costruire percorsi di inserimento degni di essere chiamati tali. Il risultato: frustrazione in entrambi i mondi e futuro incerto.
Non riusciamo a far capire ai nostri ragazzi che i titoli accademici non sostituiscono la necessaria “gavetta” professionale. Possono ridurla nel tempo, ma non possiamo immaginare l’inserimento nella direzione di un team di un neo laureato, senza che questo faccia i dovuti passaggi iniziali. Di contro si fa fatica ad entrare nelle scuole e nelle università a spiegare questo bisogno, perché, spesso, gli insegnanti si sentono minacciati nelle loro “sicurezze accademiche”; quindi, tutto fermo, nella speranza che qualche altro evento ci dia una nuova strada o una via d’uscita.
Per i più avventurosi scatta la voglia di fuga. Nasce in questi anni una nuova forma di emigrazione. Giovani laureati, liberi, desiderosi nel voler imparare meglio la lingua straniera (ma in 18 anni di scuola cosa hanno imparato??) si rendono disponibili anche per lavori manuali, da gavetta; la si e qui no …. Perché questo fenomeno? Perché non capendo … si fugge??? Perché anche noi adulti lo permettiamo? Non lo riterrei un errore se il tutto fosse ricondotto ad eventi esperienziali che potrebbero diventare “scuola di vita” per altri coetanei, incentivando quest’ultimi ad attuare in patria buone prassi per la costruzione di nuovi posti di lavoro, anche attraverso necessarie gavette iniziali.
Non ho risposte come sempre, ma una riflessione.
La prima riguarda la nostra storia italiana. Siamo un popolo relativamente giovane come unità d’Italia, vecchio nel sistema culturale che ha rappresentato nei secoli: siamo quindi figli dei nostri campanili, comuni, ducati, piccoli regni, signorie ed altro ancora. Più di mille anni di storia segnano i comportamenti ed il cambiamento degli uomini; la resistenza al cambiamento viene perpetuata proprio per paura di mettere in gioco alcune nostre “certezze”. Le nostre informazioni culturali sono depositate molto bene nella nostra memoria …. Anziché metterle in gioco, anche rischiando, pur di arricchire le nostre opportunità, ci chiudiamo nel “non cambiamento”. I nostri giovani, che con i mezzi attuali di comunicazione in pochi secondi sono collegati con il mondo, si sono resi conto di questo ed in poco tempo se ne vanno perché non vedono opportunità per poter entrare a far parte di questa società.
Qual’è la conseguenza? Rischiamo di morire in una società ricca di cultura, ma vecchia nei comportamenti; non bastano leggi nuove o regolamenti interni. Servirebbe coraggio ed un po’ di buona volontà a mettersi in discussione. Ma non finisce qui: il controsenso lo si evince quando, superati i confini italici, quasi d’incanto, ritroviamo semplicità, capacità relazionali, coraggio e modo di essere. E questo è davvero strano: mi riviene in mente un vecchio proverbio: “l’erba del vicino è sempre più verde”. Sono certo che in Italia, molti giovani, chissà per quale ragione, se non riconducibile nei nostri comportamenti sociali che “dobbiamo” tenere, non farebbero mai alcuni lavori malpagati e poco gratificanti; ma all’estero si… (vedi la quantità di posti di lavoro “andati in bianco” rispetto all’alta percentuale di disoccupati). Ribadisco il mio punto di vista che ho già enunciato in queste colonne: servirebbe una scuola ed un mondo del lavoro con una maggior consapevolezza della complessità della società odierna e in particolar modo quella del mondo delle relazioni tra generazioni, anche attraverso necessari scontri culturali.
Riprendiamoci questa socialità, il valore dei sentimenti, la centralità delle relazioni e del dialogo. Ritengo fondamentale parlare a tutti fin da piccoli della realtà in cui vivono e non far finta che le difficoltà non esistano. Rifiutare e scappare dalle difficoltà relazionali, anche le più piccole, non serve a nulla; anzi, queste ultime abituano i soggetti a scappare sempre dalle loro responsabilità.
Beh! ma non siamo contenti? dobbiamo ringraziare il 68 e tutto ciò che ha rappresentato se la scuola non insegna più e se i ragazzi sono confusi… ma non dovevamo essere tutti uguali e tutti attaccati a mamma stato e nonno sindacato che avrebbero provveduto al nostro futuro?
Cordialmente.
Nicola Petraccia
buongiorno
condivido con lei che il garantismo degli anni passati non ci ha molto agevolato.
Come dicevo nell’articolo ci sono ben altri “costrutti” che ci trasciniamo, anche più vecchi.
Forse è arrivato il tempo di cambiare davvero, pur rischiando. Non colpe ma senso di responsabilità. Ogni giorno nel nostro piccolo mondo che ci circonda…..