La conferenza stampa indetta da Coop in Terrazza Martini a Milano lo scorso 13 Maggio aveva come titolo “Rivoluzioni” ed in certo senso di questo si tratta.
In buona sostanza la gestione Pedroni di Coop Italia, che sino ad oggi è stata caratterizzata dalla concessione di autonomie gestionali assortimentali alle cooperative in periferia, in contrapposizione rispetto a quanto compiuto dal suo predecessore Tassinari (assieme allo storico – e compianto – direttore commerciale Roberto Fiammenghi), da oggi in avanti avrà come stella polare la centralità della marca Coop, depotenziando l’importanza delle marche industriali negli assortimenti di tutte le cooperative.
Se oggi in Coop la MDD pesa circa il 30% del fatturato, nel giro di pochi anni arriverà al 50%, grazie ad una implementazione di 5 mila referenze prodotte da 750 fornitori, contro gli attuali 500.
Si faccia attenzione, non si tratta solo di un aggiornamento dell’espansione dei prodotti a marchio Coop sugli scaffali, dietro a questo si cela la logica conseguenza di un cambio radicale dell’offerta al consumatore finale. I supermercati sono spazi fisici che, in quanto tali, hanno limiti di numerica di referenze: inserirne 5 mila significa eliminarne almeno altrettante, se non di più, e tale cambio è in grado di produrre conseguenze devastanti.
Entriamo nel merito della questione.
La marca privata sino ad oggi ha assunto due ruoli, di cui uno conseguente all’altro, almeno negli ultimi venti anni. Come ha giustamente ricordato durante la conferenza stampa Domenico Brisigotti, direttore commerciale di Coop Italia, il suo ruolo è stato storicamente quello di accompagnare le marche industriali, con un differenziale di circa 30 punti sul prezzo, consegnando al consumatore convenienza ed al retailer marginalità superiore, portando un adeguato il mix di margine all’interno delle singole categorie merceologiche.
Negli ultimi anni, soprattutto il mainstream delle private label ha assunto un nuovo ruolo: ha fatto da baluardo della convenienza contro l’avanzata dei discount, ritagliandosi il vestito dell’ “entry level” all’interno delle categorie, in modo da portare al consumatore finale una risposta qualitativamente valida e non distante in valore da quella dei discount. In tale ottica si andava sacrificando una parte della marginalità, maggiormente nel sud Italia, ma si opponeva una risposta a quel formato che, più di ogni altro, sta erodendo fatturato e sottraendo consumatori.
Il nuovo corso di Coop Italia va molto oltre tutto ciò: la sua private label sarà decisamente più profonda, approdando a segmenti sino ad oggi impensabili, ma sacrificando il ruolo delle marche industriali follower negli assortimenti. Tutti i manager presenti ci hanno tenuto a sottolineare che Coop non sarà mai qualcosa di assimilabile ad un discount, perché il ruolo delle marche industriali sarà, comunque, di integrazione, ma in ogni caso la nuova Coop dovrà essere un modello (di supermercato) nettamente distinto da tutti gli altri.
Brisigotti ha detto un’altra verità affermando che sino ad oggi elementi differenziali netti tra un’insegna ed un’altra, nei formati tradizionali, in Italia non esiste. Ha ragione.
In Europa qualcosa di avvicinabile, in termini squisitamente di offerta a scaffale, a ciò che ci è stato esposto dai dirigenti Coop, però, forse c’è: è il modello Mercadona, che (vi lascio un gossip molto rumoroso in questi tempi) pare da qualche settimana sia di nuovo in Italia per capire se entrare nel nostro mercato oppure no.
Anche in questo caso i manager di Coop ci hanno tenuto a distinguere ed allontanare il loro modello da quello di Mercadona, evocato da chi scrive durante la conferenza stampa. Ci saranno differenze questo è certo, ma in Europa nel mass market retail tradizionale un modello vicino a quanto esposto dai dirigenti Coop è solo Mercadona, oppure in Italia Unes, ma con metrature decisamente differenti e in un’area territoriale limitatissima.
Domanda: è pensabile in Italia un modello retail tradizionale con una suddivisione a metà dell’assortimento tra industria di marca e private label?
Chi scrive ci ha tenuto a sottolineare ai dirigenti Coop che il modello dei discount è vincente per una semplicissima ragione: i volumi per referenza. Se in 1500 mq esponi 3 mila referenze e fatturi 5/6 milioni di euro, ed in un supermercato di uguali dimensioni esponi 8 mila referenze per fatturare poco più, la differenza la fanno i volumi per unità di vendita che, tradotto in numeri, significa che un fornitore consegna al discount 10 camion di prodotti alla volta, mentre al supermercato ne consegna cinque o sei. Ecco dove sta la differenza nel prezzo all’acquisto.
Ho domandato: siete sicuri che la vostra MDD, in un contesto differente com’è quello di un supermercato, possa essere competitiva come quella di un discount? Mi è stato risposto che già oggi le rotazioni dei prodotti a marchio Coop sono superiori rispetto a quelle delle grandi marche con un differenziale di 1,7 circa.
Ho quindi rivolto ai manager Coop una seconda domanda, frutto di un’ulteriore riflessione: Coop non è una sola azienda, è un insieme di imprese cooperative, ognuna con un bilancio ed un proprio conto economico. Ho poi spiegato che oggi i commercialisti si sono fatti più furbi ed inseriscono i contributi promozionali all’interno dei ricavi, e non più nella voce “altri ricavi” ben più distinguibili, e che pertanto l’eliminazione di un gran numero di fornitori implica automaticamente una forte diminuzione dei contributi promozionali elargiti da parte dell’industria.
A quanto ammontano questi contributi promozionali? Chi è lo stereotipo di fornitore più propenso ad utilizzare questo strumento commerciale per conquistare spazio a scaffale?
Come appena descritto le imprese della GDO negli ultimi anni hanno iniziato ad inserire i contributi promozionali nei ricavi, annegandoli assieme alle vendite alle casse, perché l’entità del valore è diventata talmente rilevante che non è più considerabile come un “ricavo non derivante dal core business principale”, ma ne è assolutamente parte integrante.
Le aziende fornitrici disposte ad investire maggiormente, in termini contrattuali, sul mass market retail con “listing fee” decisamente rilevanti sono i follower dei leader di mercato, ovvero coloro i quali, attraverso investimenti b2b (e molto meno b2c verso il consumatore finale, esempio con advertising) sono disposti a “comprare” quote di mercato “inondando di denari” il retailer. Ebbene la “rivoluzione” Coop chi andrebbe a colpire? Esattamente questo stereotipo di fornitore, ovvero coloro che maggiormente investono in contributi promozionali.
Vorrei ricordare che Coop Alleanza 3.0, Coop Lombardia, Nova Coop e Coop Liguria (si parla del 65%-70% dell’intera Coop Italia) producono circa il 50% del loro fatturato attraverso gli ipermercati, ovvero costosissime strutture che faticano a produrre un indicatore attivo a bilancio, e che dipendono per la loro stessa vita da detti contributi promozionali.
Durante la conferenza stampa ho domandato come faranno le cooperative senza i contributi promozionali elargiti dall’industria di marca se verrà, almeno in parte, delistata?
Mi è stato risposto: “Quanto ai contributi bisogna avere il coraggio di cambiare.” (Pedroni); “Il fuori fattura è una anomalia italiana, abbiamo fatto bene i conti e abbiamo certezza della sostenibilità di quello che stiamo producendo” (Brisigotti).
Non ho la sfera di cristallo, ma provo a fare una mia previsione: non entro nel merito della bontà del progetto, è inutile giudicarlo senza studiarlo nella sua esecuzione pratica e nella sua profonda interrelazione che si creerà con il consumatore finale. Ma di una cosa sono certo: i bilanci di Coop Alleanza 3.0 e Coop Lombardia oggi non possono fare a meno nemmeno di una piccola parte dei contributi dei fornitori, e temo che nemmeno Coop Liguria, Nova Coop, Unicoop Tirreno ed anche Unicoop Firenze (per temi più legati ad aspetti finanziari e non alla gestione caratteristica) possano.
Coop Italia è un insieme di imprese cooperative che non brillano per i loro bilanci e che devono osservare un must superiore ai dettami della centrale: la sostenibilità finanziaria. E sino a quando non saranno nelle condizioni di superare questa situazione saranno costretti (tutti) ad annacquare il progetto, insipidendo i propositi dei manager che con tanto entusiasmo hanno portato al mercato una nuova idea. Di questo hanno sicuramente il merito.
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Condivido molto il tuo articolo.
Nell’annunciare la rivoluzione manca il pensiero delle cooperative
Ed e giusto sottolineare che le cooperative hannno grandi problemi di bilancio
Una rivoluzione così non può prescindere da dire come sarà l’assortimento complesdibo del PV. Quanto profitto a marchio quanti leader quali follower
Secondo puntare al profitto a marchio vuol dire cambiare offerta commerciale servizio conto economico. Il punto vendita e le cooperative non possono fare a meno di sapere come cambierà l’offerta i display la marginalità il conto economico
Vedremo cosa succederà ma mi sembra un progetto incompleto
Ciao Marco, esatto è proprio così. L’idea è affascinante ma la cruda realtà dei negozi e dei conti economici è un’altra cosa. Andrea