
Inervista di Dario Di Vico a Francesco Pugliese dal Corriere della Sera Economia (link)
Parla Francesco Pugliese, il ceo di Conad: nessuna guerra alla maggioranza di governo, ma dobbiamo avere la libertà di aprire. Ecommerce da regolare. La spinta ai consumi solo con più lavoro.
«Lo sa quanti sono gli italiani che fanno la spesa la domenica? Venti milioni. Non stiamo parlando quindi di comportamenti eccentrici e un po’ snob di una minoranza. Parliamo di un italiano su tre. La verità è che la domenica è diventato un giorno come gli altri per fare acquisti, anzi se guardiamo al fatturato è il secondo miglior risultato della settimana». Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, è decisamente preoccupato per le ricadute del provvedimento sulle chiusure domenicali deciso dal governo Conte. Preoccupato anche perché il mondo del commercio vive una transizione tutt’altro che facile. I consumi sono stagnanti, l’ecommerce guadagna terreno e sono a rischio nel 2019 in Italia tra i 30 e i 60 mila posti di lavoro.
Se non potranno fare spesa di domenica gli italiani la faranno negli altri giorni. Poco male.
«Non è così semplice. Nella grande distribuzione alimentare si potrà recuperare fino al 90%, ma i centri commerciali e gli outlet vivono sulle aperture domenicali. Serravalle Scrivia ha più presenze del Colosseo e un fenomeno di questo tipo non può essere trattato con superficialità e pressapochismo».
Ma in una fase che si annuncia non breve nella quale i consumi rimangono piatti ha senso per voi fare la guerra al governo sulle aperture?
«Non facciamo guerre. Chiediamo di avere libertà di aprire, non l’obbligo. Le parlo di Conad: su 1.900 supermarket oggi la domenica ne teniamo aperti il 41% e solo il 16% tutto il giorno. Sappiamo fare i conti e del resto aprire costa. Vogliamo offrire ai consumatori un servizio dove c’è domanda e dove genera ricchezza. La nostra non è una battaglia da talebani. E francamente penso che i consumatori lo hanno capito: il 65% ci dà ragione. Non sopportano che la politica ci dica come dobbiamo vivere, cosa dobbiamo fare. Non è questo il ruolo dello Stato in una società moderna».
Il discorso che fa per le domeniche vale anche per le feste civili e religiose?
« Proprio perché non siamo ideologici ma solo dei buoni operatori di mercato, siamo disposti a ragionare sulle altre festività senza preclusioni. Mettiamo invece in luce le distorsioni che il provvedimento governativo creerà. Lo sa che Assago, alle porte di Milano, potrà aprire solo perché avendo un palasport è considerata città turistica? E aggiungo che a sei (6!) chilometri da lì, a Rozzano, un altro grande centro commerciale, non avendo accanto una palasport per i concerti, dovrebbe restare chiuso col rischio di fallire. Di esempi così gliene posso fare cento».
Il governo non è solo però in questa battaglia. La Chiesa e i sindacati da tempo, anche con i governi di centro-sinistra, hanno chiesto di restringere al massimo la facoltà di aprire.
« Separiamo i due soggetti di cui ha parlato. Personalmente sono un cattolico praticante eppure l’anno scorso ho lavorato 19 domeniche su 52. Rispetto i sentimenti religiosi dei nostri dipendenti ma la secolarizzazione della società non è colpa dei supermarket. E una maggiore religiosità non si ottiene certo con la chiusura dei negozi».
Però nel commercio la manodopera è prevalentemente femminile e sia la Chiesa sia i sindacati sono preoccupati per il vuoto che si crea in famiglia.
«Nella contrattazione sindacale che avviene a livello di gruppo e nei singoli punti vendita si possono organizzare al meglio le turnazioni. E comunque diamo sempre la precedenza ai volontari attirati da una maggiorazione festiva del 30% del salario».
Ma non c’è contrattazione dappertutto e i sindacati segnalano continui arbitrii.
«Se c’è qualche impresa che non applica correttamente i contratti va sanzionata. Per uno che si sbaglia non si può colpire un settore».
Lei non pensa però che a fronte di una domanda piatta ci sia troppa offerta, troppi punti vendita?
«Il problema non si pone in tutte le Regioni. Pensi che la zona che ha la maggiore concentrazione di supermercati non è Milano ma il Molise. Detto questo riconosco che potrebbe aver senso parlare di rottamazione, di provvedimenti che servano a ristrutturare l’offerta e a metterla in maggiore sintonia con i mutamenti dei consumatori. Dando loro maggiore prossimità. E se davvero sul mercato si dovessero registrare reali movimenti di consolidamento del settore, noi ci saremo».
Ma come pensate di affrontare la stagnazione dei consumi? Vi rassegnate a una domanda che non vi premia?
«La spinta ai consumi può darla solo più lavoro, abbiamo già visto come gli 80 euro di Renzi non hanno funzionato. Colpisce comunque in una ricerca che abbiamo svolto con il Censis che la percentuale di chi dichiara di spendere di meno sia più alta nel ricco Nord che nel Centro Sud. Vuol dire che non si consuma e si tengono i soldi in tasca o nel conto corrente innanzitutto per l’incertezza che ci avvolge tutti. Se poi vogliamo avventurarci in un discorso a media gittata credo che si possa uscire dalla stagnazione solo tagliando il cuneo fiscale, più soldi in tasca alle famiglie e più chance per le imprese di investire».
Oltre ai problemi di cui abbiamo parlato dovete fare i conti anche con un consumatore profondamente cambiato.
«Scherzando ma non troppo lo definiamo sovranismo dei consumi. Ognuno pensa per sé, dentro un mare di contraddizioni. Crescono i prodotti premium del made in Italy così come quelli legati al salutismo. Si consuma meno, ma meglio. Ma il consumatore di oggi è chiuso nei suoi bisogni».
Chiuso ma aperto alla novità dell’ecommerce. Il convitato di pietra di ogni discorso sul futuro del settore.
«Oggi vale il 5% delle vendite ed è in progressione. Ma è una cavalcata che avviene in spregio alle regole. Il sottocosto è inquadrato rigidamente per noi, solo 3 volte l’anno e per massimo 50 prodotti. Bene, nel Black Friday sono stati messi in circolo milioni di prodotti sottocosto. Così non va. Chiediamo che l’online sia tassato come i negozi fisici».
Diranno che lei vuol fermare il vento con le mani.
« Anche noi stiamo entrando nell’e-commerce ma lo sa quali sono i prodotti più richiesti? Al primo posto acqua minerale e al secondo banane. Vuol dire che l’online oggi è prevalentemente una proposta di logistica che una scelta compiuta. Il negozio fisico è tutt’altro che morto, specie se migliora la prossimità e la relazione con il cliente. Nel commercio è ancora l’uomo a fare la differenza».
Sono pienamente d’accordo con Pugliese, e stamattina ho avuto il piacere di sentire un alto dirigente di Confcommercio Milano dichiarare in un’intervista che l’Unione Commercianti è assolutamente contraria a qualunque tipo di chiusura obbligatoria per qualunque tipo di negozi.
Credo che il problema vada ben oltre gli aspetti economici. Obbligare i negozi alle chiusure festive vuol dire una pesante regressione culturale verso un modello sociale di stampo medievalistico a cui neppure la Chiesa chiede più. Bisogna opporsi a tuti i costi!