Lo scopo di questi primi articoli, più marcatamente teorici, è quello di dare al lettore una chiave di lettura di tipo finanziario degli accadimenti e delle performance aziendali: una sorta di breve guida attraverso cui interpretare i giudizi degli operatori finanziari sui numeri della propria impresa (e quindi sulle strategie aziendali intraprese nel passato, di cui quei numeri sono il risultato principale).
Ma è proprio necessaria una premessa teorica? Questa è la domanda che tutti gli imprenditori ci pongono agli inizi del nostro precorso consulenziale. Noi sosteniamo che non si tratta solo di volere insegnare un nuovo approccio fine a se stesso ma che c’è una ragione molto pratica, che ricade sulle spalle e sulla vita quotidiane delle aziende. Nel sistema finanziario da qualche anno c’è una nuova e più agguerrita forma di concorrenza: quella fra gli stessi clienti (le aziende) per mantenere gli affidamenti in essere e ottenere altro credito per sviluppare nuovi progetti. Il fattore critico di successo per giocare ad armi pari con i concorrenti in questo importante mercato (del credito) è quindi rappresentato dalla conoscenza e l’applicazione dei principi finanziari di base, che stiamo cercando di illustrare in questi articoli di taglio più teorico.
La settimana scorsa abbiamo visto che l’operatore finanziario nell’osservare i bilanci al fine di valutare le performances storiche, cerca di rispondere in particolare alle seguenti tre domande:
- L’impresa ha investito in buoni progetti?
- L’attività aziendale è stata finanziata correttamente?
- Nel corso del tempo, tenendo conto del susseguirsi dei diversi cicli economici, l’azienda ha adottato politiche di dividendo corrette e coerenti con il proprio business?
Rispondere a queste domande significa comprendere se e con quali risultati l’impresa ha lavorato sulla politica degli investimenti, su quella dei finanziamenti e infine su quella dei dividendi.
Non esiste una regola precisa perché ogni impresa è diversa dall’altra, tuttavia, dal punto di vista finanziario, si può affermare che solo le scelte (le politiche) che nel lungo termine portano ad aumentare il valore dell’impresa, sono corrette.
Questo “valore” non è altro che l’insieme dei flussi di cassa che l’azienda produrrà da oggi in avanti: e poiché il denaro prodotto oggi vale di più di quello prodotto fra dieci anni, i flussi di cassa futuri devono essere “attualizzati” ad un tasso di sconto che è tanto più alto quanto più rischiosa è l’impresa (infatti più i progetti sono rischiosi e maggiore e la probabilità che i proventi futuri effettivi si discostino da quelli stimati).
Quindi in prima battuta il valore di un’azienda dipende dalla capacità di produrre flussi di cassa, il che ha a che fare con la crescita dei ricavi, i margini che è in grado di ottenere, i costi di struttura e il fabbisogno di investimenti necessari a mantenere il business e permettere la crescita. Infine il fabbisogno dipende anche e soprattutto dalle scelte commerciali in termini di scorte, dilazioni e tempi di pagamento.
Questi fattori non sono altro che gli elementi principali della gestione aziendale, quindi è naturale che nella valutazione d’impresa, ancorché con metodi finanziari, essi occupino il ruolo principale: infatti, non è una novità, il valore aziendale dipende in prima istanza dalla capacità di fare bene il proprio mestiere!
Il secondo elemento che influisce sul valore aziendale è il tasso di sconto che viene adoperato per attualizzare i risultati futuri e che dipende da due componenti: la rischiosità dei progetti in cui l’azienda ha investito e la struttura finanziaria che è stata scelta per sostenere questi progetti.
Sotto il primo profilo si fa riferimento al cosiddetto rischio di business, che dipende dal settore e dall’impresa. Ad esempio, pensiamo a due imprese della GDO che hanno investito lo stesso ammontare di denaro in una serie di ipermercati dei quali, nel primo caso, tutti operativi da diversi anni e quindi con ricavi e redditività stabile, mentre nel secondo caso vi è un solo punto vendita attivo e gli altri sono in fase di ultimazione dei lavori. E’ naturale che nel secondo caso, a parità di capitale investito, c’è un maggiore rischio dell’investimento legato ai molti fattori critici che caratterizzano l’apertura di nuovi punti vendita, e quindi un eventuale finanziatore non può non tenerne conto, in sede di determinazione del livello di remunerazione preteso per sostenere l’impresa.
Per quanto riguarda il secondo aspetto ci si riferisce al cosiddetto rischio finanziario, ovvero il rischio che a causa di mutate condizioni di mercato (diminuzione della domanda, o dei margini o anche aumento dei tassi), gli interessi passivi sui finanziamenti erodano gran parte del reddito generato nella gestione operativa. Pensiamo ad esempio a due imprese che pur presentando lo stesso volume d’affari e gli stessi margini, a differenza del differente livello di capitalizzazione, offrono ai loro soci degli utili nettamente diversi, a causa dell’impatto degli interessi bancari. Anche in questo caso l’eventuale finanziatore dell’impresa maggiormente esposta pretenderà un livello di remunerazione più alto, poiché la stessa presenta, a parità di ricavi e reddito operativo, un maggiore rischio di erosione da parte dei costi finanziari.
Concludendo abbiamo affermato che, nell’ottica finanziaria, il valore di un’impresa dipende dal risultato delle scelte di carattere operativo (quanti ricavi produce, con che margini, con che livelli di crescita, con quali politiche commerciali, con quali costi di struttura) e di ordine finanziario (con quale grado di capitalizzazione, con quali forme durate e costi di indebitamento, con quale livello di distribuzione di dividendi).
Nel prossimo articolo vedremo come influiscono su questo valore le singole scelte d’investimento, di finanziamento e di dividendo.